Con la legge 179/2017 il legislatore ha tentato la strada del controllo sociale sulle patologie corruttive emergenti, prendendo di fatto atto che il controllo imposto dagli organi istituzionali spesso non è risultato efficace.
Per addivenire a tale controllo sociale la legge ha introdotto delle protezioni al denunciante che però, come vedremo in seguito, nel vuoto etico e nel degrado sociale complessivo, non si possono considerare reali protezioni.
“Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione…”. Nell’adempimento di tale diritto/obbligo il segnalante è esonerato dall’obbligo del segreto previsto dagli “articoli 326, 622 e 623 del codice penale e all’articolo 2105 del codice civile…”
Il legislatore per garantire l’anonimato ha previsto altresì che “ .. la segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni..”.
Si potrebbe dire tutto bene ma così non sembra.
All’interno della normativa infatti non si rinviene alcuna tutela di riservatezza rispetto al diritto di difesa garantito all’imputato dall’art. 329 c.p.p., eppure i fatti di cui si chiede il controllo sociale sono tutti forieri di difficili procedimenti penali che potrebbero rappresentare il vulnus della riservatezza tutelata e costituire un deterrente alla denuncia.
Altro aspetto non secondario riguarda la possibilità del denunciante di perderei benefici della riservatezza nel caso in cui lo stesso incorra nei reati di calunnia o diffamazione, ovvero alla sua responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave. Se è noto che le delazioni in genere nascono dal sentito dire o dall’aver visto personalmente senza la possibilità di fornire prove sui fatti, prova che viene necessariamente demandata all’autorità giudiziaria e quindi a quella istituzione che con la legge in discussione ha abdicato parzialmente il controllo, perché non limitare al dolo la eventuale deroga al principio di riservatezza previsto?
E’ intuibile quindi che il sistema ha dei limiti che nascono evidentemente da un errore di impostazione.
A colui che viene chiesto di segnalare condotte ritenute illecite e a cui viene quindi chiesto di sostituirsi alle istituzioni, che invece dovrebbero avere in se gli anticorpi alla corruzione, non possono essere garantiti solo i diritti connessi al lavoro, ma dovrebbe essere garantita la completa riservatezza in qualsiasi contesto giudiziario (anche penale) derogabile solo dalla volontà di nuocere e dovrebbe essere gratificato, ove decidesse di venire allo scoperto, da una ricompensa economica come già avviene ad esempio negli Stati Uniti con il Dodd-Franch Act (del 31/07/2010).
Infatti nelle more di una rigenerazione culturale della coscienza sociale occorrono metodi premiali oltre che difensivi per confliggere con la corruzione. Sembra assurdo, e ci si potrebbe vergognare a dirlo, ma il degrado sociale impone mezzi straordinari che non vadano ad incidere sulle coscienze, alla cui cura dovrà poi provvedere il sistema educativo, ma che vadano a premiare il portafoglio dei collaboratori.
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