CONCORDATO MISTO NELL’INTERPRETAZIONE GIURISPRUDENZIALE – Avv. Amedeo Mazzocconi
Con sentenza del 28 novembre 2019 il Tribunale di Milano ha stabilito che quando c’é un significativo complesso produttivo da tutelare, si deve applicare la disciplina del concordato in continuità, e ciò a prescindere dai beni da assoggettare a liquidazione, e comunque sempre che questa scelta non danneggi le ragioni creditorie.
Tale principio é stato ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n°734 del 15 gennaio 2020, anche se con argomenti giuridici diversi, consolidando così una interpretazione univoca del concordato misto, pervenendo comunque alle stesse conclusioni.
Le fattispecie concrete esaminate nelle due predette sentenze sono in parte diverse, pur presentando in entrambi i casi delle proposte di natura mista, con previsione della continuità aziendale, unitamente alla liquidazione di beni non strategici. In ogni caso con tali pronunce si sono affrontati aspetti interpretativi controversi, che hanno generato in passato orientamenti giurisprudenziali contrastanti, con divergenti riconoscimenti delle percentuali minime per i crediti di natura chirografaria, delle attestazioni e delle nomine dei liquidatorj.
Nella sentenza del Tribunale di Milano si anticipano in qualche modo le previsioni dell’art. 84 del Codice della crisi di impresa (la cui entrata in vigore é stata peraltro rinviata), in virtù del quale la continuità aziendale sussiste quando il piano preveda l’impiego, per due anni, di un numero di dipendenti pari almeno alla metà della media dei dipendenti occupati negli ultimi due anni.
Dunque, in base alla predetta pronuncia, si deve prescindere da una verifica sul contenuto prevalente della proposta formulata, sia che attenga alla vendita di parti dell’azienda o di singoli beni od anche dalla prosecuzione aziendale, e ciò quando si tutela l’occupazione. Tutto ciò all’interno della previsione normativa introdotta dall’art. 84, nel cui ambito generale si stabilisce che la valutazione della continuità di una proposta vada fatta guardando alla prevalenza del ricavato della stessa, che sarebbe derogabile soltanto nell’ottica della conservazione di un consistente presidio occupazionale.
La Suprema Corte invece, nella sua predetta pronuncia, si orienta più sul contenuto letterale dell’art. 186 bis della Legge Fallimentare, nel quale non si prevede alcun confronto tra la preponderanza di quanto ricavabile dalla liquidazione di asset dell’azienda, rispetto a quanto ricavabile dalla continuità aziendale, facendo piuttosto riferimento alla cessione di beni non strettamente necessari per garantire l’esercizio dell’attività, considerando ovviamente che i beni funzionali sono destinati alla prosecuzione dell’attività aziendale.
Secondo la Cassazione, dove vi sia la prosecuzione dell’attività d’impresa, essa va inquadrata nell’ambito della continuità aziendale, riconoscendo l’importanza preponderante dei beni funzionali a garantire la predetta continuità e del rischio che assume l’imprenditore per proporre un miglior soddisfo dei creditori.
Con tale sentenza dunque si cerca in qualche modo di chiudere un dibattito, apertosi ormai da qualche anno, trovando una sintesi tra le varie posizioni espresse, e ciò al fine di trovare una soluzione, che abbia un senso logico-giuridico, per ostacolare gli eccessi che si sono verificati a seguito della eliminazione dell’obbligo di rispettare una percentuale minima di soddisfazione dei creditori nelle ipotesi di continuità aziendale.